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Sustainable Era

Boom di investimenti sostenibili, ma attenzione ai rating ESG

Una ricerca del MIT mette in luce la confusione che regna dietro al concetto di sostenibilitą

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14 November 2019

Il concetto di sostenibilità, elemento chiave dell’attuale azione politica internazionale per salvare le sorti del pianeta, ha contaminato anche il mondo della finanza ed oggi gli investimenti cosiddetti sostenibili ammontano a 30'700 miliardi di dollari, oltre un terzo del PIL globale. Gli investitori sono sempre più attenti a capitalizzare i loro risparmi in imprese eticamente impegnate a rispettare quei principi che ruotano attorno alla difesa dell’ambiente, alla socialità e alla governance aziendale. Ma cosa significa avere un portafoglio responsabile? Esiste una definizione univoca? Una ricerca del Massachusetts Institute of Technology (MIT) ha messo in luce la confusione che regna dietro ai rating che hanno il compito di valutare la sostenibilità di una società nei tre settori sintetizzati nella sigla ESG (Environment, Social and Corporate Governance).

Secondo l’ultimo rapporto della Global Sustainable Investement Alliance, gli investimenti nell’ambito ESG sono passati dai 22'800 miliardi di dollari nel 2016 ai 30'700 miliardi di dollari nel 2018, con un incremento del 34 % in soli due anni. Si tratta di un trend fortemente in crescita, anche se l’Europa, che conserva il suo primato con 14'000 miliardi di dollari, ha riportato l’incremento più basso (+11 %). Negli Stati Uniti la crescita è invece stata del 38 % (11'900 miliardi di dollari), in Canada del 42 % (2'180 miliardi di dollari), in Australia e Nuova Zelanda del 46 % ed in Giappone addirittura del 307 % rispetto al 2016.

Nel Vecchio Continente, che ha fatto da pioniere, si sta però manifestando un fenomeno in controtendenza: nel 2014 gli investimenti ESG rappresentavano il 58,8 % del totale degli investimenti, con una flessione al 52% nel 2016, per attestarsi al 48,8 % nel 2018. Come leggere questa involuzione? Stando ai dati riportati da uno studio di Eurosif, molti paesi dell’Unione Europea hanno prudenzialmente dichiarato importi inferiori, anticipando l’adeguamento ai nuovi standard a cui sta lavorando la Commissione europea per creare un’unica piattaforma per definire le attività economiche sostenibili.

Certo non esiste un unico concetto di etica ed una sola definizione di sostenibilità, ma – come ha messo in luce una ricerca pubblicata di recente dal MIT, dal titolo emblematico “Aggregate Confusion: The Divergence of ESG Ratings” – la divergenza tra i giudizi delle agenzie specializzate nella valutazione dei titoli ESG è troppo ampia. La correlazione fra rating sullo stesso titolo da parte dei cinque provider presi in esame (Kld, Sustainalytics, Vigeo-Eiris, Asset4 e RobecoSam) è stata in media solo dello 0,61, un risultato piuttosto basso se confrontato con la correlazione dello 0,99 fra i rating di credito forniti dai provider prettamente finanziari, quali Moody’s e S&P.

I ricercatori del MIT hanno considerato tre elementi per analizzare la discrepanza tra i vari rating: le differenze rispetto ai criteri di valutazione selezionati, che assieme definiscono un rating ESG  (un’agenzia può includere aspetti che un’altra esclude); i differenti pesi attribuiti ad un criterio nella definizione del rating (ad esempio l’importanza assegnata ai diritti umani); le differenti misurazioni di un criterio, utilizzando indicatori diversi (ad esempio nel valutare le condizioni di lavoro si possono includere più aspetti, come il ricambio del personale o la sicurezza sul lavoro, che portano ad una valutazione differente). Le divergenze maggiori sono state riscontrate nella misurazione dei criteri di valutazione, con una discrepanza del 53 %, mentre la selezione dei criteri causa il 44 % delle differenze tra rating ed il restante 3 % è da imputare ai diversi pesi dati ad un attributo. Lo studio mostra quanto piccole discrepanze al livello degli indicatori e nelle regole di selezione dei criteri facciano poi emergere delle macro-differenze tra rating nella valutazione dei titoli.

La difficoltà nel trovare punti di convergenza si amplifica quando la palla è nelle mani dei gestori finanziari che devono passare al vaglio le imprese da inserire nei portafogli “responsabili”. Le strategie da mettere in atto per la selezione dei titoli sono molteplici. La più diffusa è il cosiddetto screening negativo, ovvero l’esclusione dagli investimenti di quei settori ritenuti poco etici, come il tabacco, le armi, la pornografia, come pure i soggetti coinvolti in gravi controversie. Un’altra metodologia spesso utilizzata è l’integrazione dei criteri ESG nell’analisi finanziaria classica, con l’obiettivo di valutare i rischi ambientali, sociali e di governance che potrebbero comportare costi significativi danneggiando la reputazione dell’azienda. L’approccio best-in-class cerca invece di selezionare i titoli meglio quotati nell’ambito ESG della propria categoria: con questo approccio non si escludono le società che sfruttano il petrolio, ma si sceglie di investire in quelle che in questo settore lavorano con più accortezza. Il rischio è però quello di ritrovarsi nel proprio portafoglio sostenibile una società considerata virtuosa da un punto di vista ESG, anche se coinvolta in controversie. Per questa regione, gli asset manager attenti utilizzano più metodologie per la selezione dei titoli da acquistare, come il doppio screening: una prima fase in cui vengono escluse tutte le società coinvolte in attività ed in settori controversi e che violano le norme e le convezioni internazionali, ed una seconda fase dove vengono selezionati i criteri positivi di valutazione che permettono di analizzare le società in base a parametri ambientali, sociali e di governance aziendale.

Nella realtà operativa risulta più facile trovare una valida strategia d’esclusione (negative screening) rispetto ad un rating ideale sui criteri di valutazione positivi, poiché etichettare un aspetto come “giusto” o “sbagliato” o dargli un determinato peso dipende dalla scala valoriale del singolo individuo, in base al suo background culturale, sociale, lavorativo, etc. Il bravo gestore di patrimoni dovrebbe essere in grado di interpretare le esigenze etiche del proprio cliente, selezionando i “giusti” parametri per costruire un portafoglio sostenibile su misura.