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La moda? Poco sostenibile? 1

La moda? Poco sostenibile?

Un approccio circolare e la digitalizzazione per diminuire le emissioni e gli sprechi

“Bibbidi bobbidi boo!” … Ve la ricordate la fiaba di Cenerentola? La parte in cui la Fata Madrina trasforma gli stracci di Cenerentola in un abito da sera per il ballo a Palazzo reale? Ad una lettura in chiave contemporanea, le due protagoniste del popolare racconto potrebbero essere viste come le pioniere della moda circolare, che oggi rappresenta un mercato di 73 miliardi di dollari. Il recupero, il riutilizzo, la riparazione e il noleggio dei vestiti, assieme alla vendita dell’abbigliamento di seconda mano, sembrano essere diventati la chiave di volta per ridurre l’impatto ambientale dell’industria fashion. Un trend sempre più in voga, soprattutto tra i Millennial e la Generazione Z, con un potenziale enorme: dal 3,5% dell’intero mercato della moda potrebbe ricoprire fino al 23% entro il 2030, pari a 700 miliardi di dollari, con un calo del 16 % delle emissioni prodotte dal settore, ovvero 340 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti (CO2e, unità di misura che esprime l'impatto delle emissioni di gas serra sul clima) all’anno, che corrispondono ad un terzo della riduzione di emissioni richiesta entro il 2030 all’industria del settore per far fronte al surriscaldamento climatico.[i]

Tra i maggiori inquinatori

Lo dicono i dati: l’industria della moda, così come è attualmente concepita, è uno tra i maggiori inquinatori. La produzione di capi di abbigliamento è raddoppiata tra il 2000 ed il 2015, ma il loro utilizzo è diminuito del 36%[ii]: vengono indossati a malapena per poi essere gettati in discarica, dove finisce l’85% degli indumenti, ovvero 40 milioni di tonnellate di tessili all’anno (ogni secondo viene bruciata o gettata in discarica l’equivalente di una camionata di spazzatura tessile).[iii]

Non solo la sovraproduzione ha inciso notevolmente sulle emissioni di gas serra: 2,1 miliardi di tonnellate nel 2018, tra il 5 ed il 10% del totale globale. [iv] Ma la lavorazione e la tintura dei tessuti sono responsabili del 20% dell’inquinamento idrico industriale e il 35% delle microfibre negli oceani è attribuibile ai lavaggi di indumenti in fibre sintetiche, soprattutto il poliestere.[v] L’industria fashion è anche il secondo principale consumatore di acqua al mondo: in totale ci vogliono quasi 3’200 litri per produrre una t-shirt in cotone ed oltre 9'000 per produrre un paio di jeans.

Se le case di moda nel 2000 proponevano 2 collezioni all’anno, nel 2011 ne producevano 5. Alcuni brand della fast fashion arrivano addirittura a 24 collezioni l’anno (Zara).[vi] Tanto più che questa tendenza ha avuto effetti negativi sugli utili: a causa di prezzi sempre più bassi e della perdita di ricavi – da overstock, rotture di stock e resi – i margini di profitto dei principali rivenditori mondiali di abbigliamento sono diminuiti in media del 40% dal 2016 al 2019. La pandemia di covid ha ulteriormente esacerbato la situazione, dove il settore ha subito una riduzione del 90% dei profitti.[vii]

 

Moda e criteri sociali: un vestito difficile da confezionare

Molte parole, pochi fatti e mancanza di trasparenza: sono questi, in sintesi, i risultati emersi dal rapporto di The Business of Fashion (BoF) Sustainability Index 2022, che misura i progressi compiuti nel settore della moda in sei determinate aree (emissioni, trasparenza, inquinamento acque e sostanze chimiche, materie prime utilizzate, diritti dei lavoratori e rifiuti) attraverso i dati raccolti da 30 delle principali compagnie di moda per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dalle Nazioni Unite.[viii]

Ad eccezione delle emissioni, leggermente diminuite, negli altri ambiti si registra un netto ritardo rispetto ai target da soddisfare entro il 2030: i diritti dei lavoratori ed i rifiuti sono aree dimenticate, ancor di più dopo la crisi causata dalla pandemia. Riguardo alla violazione dei diritti umani, “di recente gli Stati Uniti hanno inserito nella loro lista nera le importazioni di cotone provenienti dalla regione dello Xinjiang, in Cina, in risposta alle accuse di lavoro forzato sostenuta dallo stato”.[ix]

Malgrado le performance poco soddisfacenti, Puma ha ottenuto il punteggio più alto (49/100), seguita da Kering, Levi Strauss, H&M Group e Burberry.[x] Per quanto i big della moda parlino di sviluppo sostenibile, il termine utilizzato nel rapporto per inquadrare la situazione è “un’estesa inazione”. Il BoF chiede quindi alle 30 aziende coinvolte nell’indagine di indicare con chiarezza le strategie che intendono adottare per innescare un reale cambiamento, raddoppiando gli sforzi attraverso regole e politiche più mirate per incentivare l’azione ed aumentare la trasparenza lungo l’intera filiera della moda (progettazione, approvvigionamento dei materiali, lavorazione e produzione, trasporto, distribuzione, ciclo della vita degli indumenti) e adottando pratiche a tutela del benessere dei lavoratori.[xi]

Per mancanza di dati, nello studio non è stato inserito il colosso cinese della moda low-cost Shein, valutato 100 miliardi di dollari, con un fatturato maggiore di Zara e H&M messi assieme. Di recente l’azienda è però stata protagonista di un documentario trasmesso dall’emittente britannica Channel 4, in cui un reporter è riuscito ad introdursi in una delle fabbriche a cui Shein appalta la produzione dei suoi prodotti, raccogliendo testimonianze sconcertanti sulle condizioni di lavoro dei dipendenti: diciotto ore di lavoro al giorno, nessuna festività e paghe da fame. Per di più si è anche scoperto che alcuni articoli contengono sostanze pericolose (ftalati, formaldeide e nichel) in quantità superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee. In pratica, questi prodotti da noi sarebbero illegali.

 

Un’industria al bivio

Secondo Greenpeace “l’industria della moda è ad un bivio e deve scegliere quale strada percorrere. Può proseguire sul modello attuale basato su pratiche di spreco e modelli usa e getta che continueranno ad aumentare l’impatto ambientale del settore sul nostro Pianeta e sul tessuto sociale o, in alternativa, invertire la rotta diventando creativa ed innovativa attraverso l’adozione di business rivoluzionari che consentono di rispettare i limiti di risorse del nostro Pianeta.[xii]

Optare per una moda sostenibile significa basarsi su una produzione etica, che tiene conto dell’impatto ambientale, come la moda circolare, con materie prime biologicamente certificate e riciclate, e l’utilizzo di tecnologie innovative per ridurre l’inquinamento e l’uso di acqua, ma anche attenta alle ripercussioni sociali, promuovendo filiere più trasparenti basate su modelli di tracciabilità digitale, salari equi, luoghi di lavoro sicuri e commercio equo.

 

 Verso una moda circolare

Alla base dell’European Green Deal, il pacchetto di iniziative strategiche che mira ad incanalare l'UE sulla strada della transizione verde, il modello di economia circolare rappresenta un obbiettivo fondamentale. Nel settore tessile si vuole garantire entro il 2030 che i prodotti immessi nel mercato europeo siano riciclabili e di lunga durata, realizzati con materiali di prima qualità, in grado di resistere a più lavaggi, ecosostenibili e versatili: si tratta di ridurre drasticamente il volume dei rifiuti e il tasso di inquinamento. Le imprese devono quindi diminuire il numero di collezioni annue. I modelli di business circolare incarnano un’importante opportunità di crescita innovativa e sostenibile, poiché i ricavi sono indipendenti dalla produzione di nuovi indumenti: ridurre l’uso di materie prime vuol dire meno inquinamento, emissioni e pressione sulla biodiversità. E benché settori come il noleggio e la rivendita siano in forte espansione e con un grande potenziale, esiste ancora una serie di ostacoli legati all’attuale sistema lineare da superare, come gli indicatori di performance, basati sul volume delle vendite, il design del prodotto, fatto per avere vita breve e diventare rifiuto dopo pochi cicli di lavaggio, e le catene di approvvigionamento e le infrastrutture, organizzate in modo unidirezionale, che devono essere ripensate in un’ottica di business circolare[xiii], dove è prioritario tener conto anche degli aspetti sociali, affrontando sin da subito le problematiche.[xiv]

Nel 2019 i quattro modelli di business circolare del mondo della moda (rivendita, noleggio, riparazione e remaking con tessuti riciclati) rappresentavano un mercato di 73 miliardi di dollari, ovvero il 3,5 % del mercato globale del settore: i principali fruitori sono i giovani (Millennial) ed i giovanissimi (Generazione Z). Entro il 2030 è prevista una crescita fino a 700 miliardi di dollari: il 23% dell’intero mercato.[xv]

La rivendita possiede la percentuale maggiore per fatturato con 46 miliardi di dollari, pari al 63% del commercio della moda circolare, con una previsione di crescita fino a 476 miliardi entro il 2030.[xvi] Il compartimento include lo scambio di oggetti di seconda mano (online e offline), le piattaforme che mettono in contatto venditori e acquirenti (online e offline) e la rivendita del proprio brand (online e offline). Tra i leader del settore spicca il socialnetwork Depop, fondato nel 2011 dall’imprenditore italo-britannico Simon Beckerman: esso permette a chiunque di vendere ed acquistare capi di abbigliamento ed accessori usati. Amato soprattutto dalla Generazione Z, sotto i 26 anni, tra aprile e giugno 2020 ha raddoppiato il suo fatturato.[xvii] L'app, che nel 2021 contava 27 milioni di utenti in 147 paesi, a giugno dello stesso anno è stata acquisita da Etsy (Nasdaq: ETSY) per 1,6 miliardi di dollari.[xviii] Sulla stessa scia, Vestiaire Collective, l’azienda francese fondata nel 2009 che gestisce un sito di moda specializzato nella vendita di prodotti di lusso di seconda mano, ha aumentato gli ordini del 54% da febbraio a maggio 2020.[xix] È presente in 52 paesi ed oggi conta 23 milioni di iscritti, in particolare Millennial, tra i 26 ed i 40. La piattaforma lituana Vinted, fondata nel 2008, ha ben 68 milioni di iscritti, specialmente giovani tra i 18 ed il 35 anni, ed è attiva in 12 mercati in Europa. Vendere o comprare qualcosa risulta essere molto facile. Dopo aver scaricato l’app, si passa subito all’azione, caricando la foto dell’articolo che si intende vendere. Oltreoceano troviamo due startup californiane, entrambe quotate al Nasdaq. Poshmark (POSH), network di rivendita sostenibile, fondato nel 2011, conta 80 milioni di utenti e nel 2021 ha fatturato 326 milioni di dollari, registrando un aumento del 22% rispetto all’anno precedente (262 milioni di dollari). Allo stesso modo, ThredUp (TDUP), la piattaforma di moda di seconda mano fondata nel 2009 a San Francisco, ha raggiunto un fatturato di 252 milioni di dollari nel 2021, con una crescita del 35% rispetto al 2020.

 

Il noleggio di vestiti, sia da privato a privato, sia su piattaforme ad ampio raggio, ricopre il 21% del mercato della moda circolare, con 15 miliardi di dollari. Entro il 2030 è prevista una crescita fino a 167 miliardi di dollari.[xx] La prima piattaforma di servizio di noleggio è stata fondata nel 2009 a New York: Rent the Runway (RENT), quotata al Nasdaq, noleggia capi firmati ed accessori da donna attraverso i suoi negozi e la vendita online. Principale azienda del suo campo, nel 2021 ha realizzato un fatturato di 157 milioni di dollari. By Rotation, lanciata nel 2019 in Gran Bretagna, ha visto quasi raddoppiare il suo numero di utenti da marzo 2020 a gennaio 2021. Il segreto del suo successo? Chiunque può aprire un profilo e affittare vestiti e accessori alle proprie condizioni (By Rotation trattiene il 15%).[xxi] Fondata nel 2014 dalle portoghesi Filipa Neto e Lara Vidreiro, inserite da Forbes nella lista 2018 “innovatori nel retail ed e-commerce 30 Under 30”, Chic by Choice aspira ad essere la Rent the Runway d'Europa. La startup spedisce in oltre 15 mercati del vecchio continente. La britannica Rotaro offre a noleggio label come Birger Christensen, Ganni e Rejina Pyo. Ogni abito può essere affittato a partire da 15 sterline per 4 giorni, a seconda delle esigenze. La svedese Hack your Closet fornisce servizi di abbonamento mensili, consentendo ai suoi clienti di vestirsi alla moda in modo conveniente e senza sprechi. Anche i brand affermati stanno investendo in questo modello di business: Ralph Lauren ha introdotto la piattaforma “The Lauren Look”, mentre H&M Group sta esplorando una serie di nuovi concetti di noleggio (COS Resell, ARKET, Conscious Collection).

 

La riparazione di vestiti rappresenta il 13% del mercato della moda circolare: si attesta attorno a 9 miliardi di dollari ed entro il 2030 dovrebbe raggiungere 32 miliardi di dollari.[xxii] Zara, poche settimane fa, ha lanciato in Gran Bretagna un progetto pilota per riparare i propri capi d'abbigliamento. Basterà spedirli online o consegnarli direttamente in tutti i negozi Zara britannici e, pagando una commissione per il servizio, saranno riparati e resi entro dieci giorni lavorativi. La società statunitense The Renewal Workshop negli ultimi sei anni ha sviluppato un mercato per la vendita online di vestiti riparati. Di recente è stata acquistata dall’azienda olandese Bleckmann, che gestisce servizi logistici e di distribuzione in tutta Europa per l'industria al dettaglio nel settore della moda, con capacità di spedizione in tutto il mondo. L’ambizione è quello di creare una filiera circolare, spingendo i marchi ad aderire al progetto. The Restory, con sede a Londra, è un servizio su richiesta che fornisce assistenza post-vendita per oggetti di lusso: offre servizi di artigianato per la riparazione di borse, scarpe e pelletteria. Di recente ha stretto una collaborazione con diversi siti e-commerce, come Farfetch Fix e Harvey Nichols. Si tratta di partnership reciprocamente vantaggioso. The Restory ha scoperto che l’85% dei clienti resta fedele ad una marca grazie ai servizi post-vendita e non per il marketing prima della vendita.[xxiii]

 

Infine, il remaking ricopre il 4% del mercato, con 3 miliardi di dollari e nel 2030 potrebbe registrare un fatturato di 16 miliardi di dollari.[xxiv] Il segmento include tutte le aziende che da oggetti già esistenti o pezzi di essi ne creano di nuovi attraverso operazioni di riutilizzo, assemblaggio e ritintura. In questo caso si parla di upcycling, una moda che fa tendenza anche tra i big del calibro di Balenciaga (il cappotto realizzato in “pelliccia di lacci da scarpe), Marni (i capispalla patchwork), Coach (le borse anni ‘70) e specialmente Miu Miu (la collezione upcycled). C’è però chi di questo modus operandi ne ha fatto la sua ragione di essere, come la giovane designer Priya Ahluwalia, stilista di origini indiane e nigeriane e fondatrice del marchio Ahluwalia, che crea vestiti mescolando folk, anni 90 e arte. Il suo lavoro dedicato alla moda sostenibile è stato premiato con il prestigioso LVMH Prize e il Queen Elizabeth II Award for British Design e nel 2020 Forbes l’ha inserita nella lista dei 30 Under 30 Europe per l’Arte e la Cultura. Mentre la londinese Helen Kirkum, con l’omonimo brand, produce scarpe, nello specifico sneakers, utilizzando solamente materiali di scarto provenienti delle discariche. Re/Done, specializzata in abbigliamento in denim riciclato, collabora con Levi's jeans per creare jeans, giacche e pantaloncini sostenibili nel centro di Los Angeles. Zero Waste Daniel è un brand di abbigliamento upcycling, con sede a New York: dalle felpe organiche all'abbigliamento sportivo, ZWD crea pezzi genderless, portando avanti l’idea di una moda fluida, attenta all’identità di genere. Anche in Italia troviamo esempi di aziende virtuose in tal senso: Blue of a Kind, fondata da Fabrizio Consoli, realizza jeans, partendo esclusivamente da abbigliamento esistente e tessuti stock e Rifò, con sede in Toscana, a Prato, raccoglie vecchi indumenti di cashmere, cotone e jeans per trasformarli in un nuovo filato con il quale crea nuovi capi di abbigliamento di alta qualità.

 

Capi firmati? Sì, tracciati e digitalizzati

Anche la digitalizzazione può giocare un ruolo importante a favore di una moda più sostenibile attraverso una serie di strumenti tecnologici come il monitoraggio della catena di approvvigionamento, i sistemi di tracciamento e i passaporti digitali per ogni indumento. Una volta digitalizzate tutte le fasi di produzione di un capo, dalle materie prime fino alla fine del ciclo di vita di un abito, si può verificare esattamente l’origine e la composizione di un tessuto, se il materiale è sostenibile, dove, come e chi ha realizzato un prodotto ed altro ancora. Tutti ne possono trarre vantaggio: fornitori e produttori possono convalidare con più facilità l’origine e la composizione dei tessuti, i brand possono avere subito a disposizione le dichiarazioni di sostenibilità e una quantità di dati per migliorare le loro catene di approvvigionamento, mentre i consumatori possono controllare e confrontare le credenziali ESG (Environmental, Social and Governance) dei differenti marchi all’acquisto di ogni vestito. Inoltre, con la possibilità di assegnare un’identità unica ad ogni prodotto, garantendone l’origine e la composizione, si può combattere il mercato della contraffazione, che costa all'industria della moda 450 miliardi di dollari all'anno.[xxv]

Tra le diverse aziende tecnologiche che offrono servizi completi in quest’ambito, la startup svedese TrusTrace ha sviluppato una piattaforma digitale per la tracciabilità dei prodotti, fornendo supporto attraverso un ventaglio di prestazioni come la mappatura della catena di approvvigionamento, la tracciabilità dei materiali, la convalida dei certificati a livello di prodotto e fabbrica, il calcolo dell'impronta di carbonio del prodotto e la comunicazione con i clienti. Nel 2019, la compagnia statunitense EON, specializzata nello sviluppo di software per la tracciabilità dei prodotti, ha collaborato con H&M, PVH, Microsoft e altri leader ed esperti nel campo della moda, della tecnologia, della politica e del mondo accademico, per la creazione del protocollo CircularID: si tratta di un sistema di identificazione globale che consente di riconoscere digitalmente gli articoli da immettere nel mercato della moda circolare e accedere alle informazioni essenziali sui materiali. Analogamente, Tailorlux, fondata nel 2009 come spin-off della Facoltà di Scienze Applicate dell’Università di Münster, ha sviluppato un programma di impronte digitali ottiche scansionabili, capaci di rilevare informazioni molto dettagliate sui tessuti e sulla composizione dei filati. Per questo nel 2019 è stata ingaggiata per lo studio di tracciabilità del cotone biologico promosso dalla C&A Foundation, dall’Organic Cotton Accelerator e dalla Fashion for Good.

 

Oltre i prodotti fisici

C’è anche un’altra realtà innovativa, rivoluzionaria ed ecosostenibile che sta prendendo piede: la moda virtuale. Di che cosa si tratta? Di abiti digitali che possono essere indossati sui social per uno scatto o in altri contesti sulla rete, che però non sono prodotti fisicamente, ma esistono solo sottoforma di pixel, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2 ed evitare l’utilizzo di materiali, acqua e plastica.

Da diverse ricerche è emerso che il 9% delle persone dei paesi industrializzati compra vestiti nuovi solo per far foto e creare contenuti sui profili online. Allora perché non indossarli solo in modo virtuale? È questo il pensiero che sta alla base della startup californiana Dress-X, un e-commerce di moda virtuale nato nel 2020, che collabora già con diversi stilisti. L’azienda si rivolge in particolare a chi ha necessità di farsi fotografare con capi di tendenza ogni giorno, come gli influencer. Le vendite funzionano in modo semplice: il cliente sceglie gli abiti sul sito, esattamente come farebbe in ogni altra piattaforma online, poi invia le foto a Dress-X; nel giro di 1-3 giorni riceve via mail le foto dove indossa i capi selezionati, a prezzi molto più bassi rispetto a quello che avrebbe pagato con lo stesso indumento prodotto fisicamente. Dal canto suo, la casa di moda digitale The Fabricant, con sede ad Amsterdam, crea abbigliamento 3D da indossare nel metaverso, ma soprattutto collabora con diverse aziende affermate nel settore, come Adidas, Puma, Tommy Hilfiger e Napapijri per le loro campagne pubblicitarie, arricchendole con effetti speciali, copertine animate, etc., senza nemmeno sprecare un centimetro di tessuto.

 

 

[i] Circular Business Models, Ellen MacArthur Foundation, 2021, p. 5, p. 69.

[ii] Ibi, p. 5.

[iii] Introducing The BoF Sustainability Index, tracking fashion's progress towards urgent environmental and social transformation, The BoF Sustainability Index 2021, p. 33.

[iv] Ibi, p. 17.

[v] These Facts Show How Unsustainable is the Fashion Industry, World Economic Forum, 31 gennaio 2020.

[vi] Ibidem.

[vii] Circular Business Models, Ellen MacArthur Foundation, 2021, p. 5.

[viii] The BoF Sustainability Index 2022, BoF, 2022.

[ix] The Sustainability Gap, how fashion measures up, BoF, 2021.

[x] La tabella completa si trova in: The BoF Sustainability Index 2022, BoF, 2022.

[xi] The BoF Sustainability Index 2022, BoF, 2022.

[xii] La Moda ad un bivio, Greenpeace, 2017, p. 10.

[xiii] Circular Business Models, Ellen MacArthur Foundation, 2021, p. 25.

[xiv] Ibi, p. 6.

[xv] Ibi, p. 15.

[xvi] Ibi, p. 16.

[xvii] Ibi, p. 15.

[xviii] Rental clothing is the next big retail boom, Wired, 16 luglio 2021.

[xix] Circular Business Models, Ellen MacArthur Foundation, 2021, p. 15.

[xx] Ibi, p. 15-16.

[xxi] Abiti a noleggio, tutti i nuovi servizi di fashion renting, IO Donna, 29 gennaio 2021.

[xxii] Circular Business Models, Ellen MacArthur Foundation, 2021, p. 15-16.

[xxiii] Ibi, p. 43.

[xxiv] Ibi, p. 15-16.

[xxv] Transparency and Resilience in Fashion, Cleantech Group, 4 giugno 2020.